VENTI ANNI DOPO
6 giugno 1989: venti anni dal giorno in cui i condannati
a morte del Biafra, quattordici italiani, tre tedeschi e un
libanese, ritornavano in patria ormai liberi. Erano tecnici
dell'ENI coinvolti, loro malgrado, nella guerra civile nigeriana.
Non avevano fatto nulla che giustificasse la terribile
condanna. Il mondo era in ansia per loro. Nazioni importanti
si erano mosse per salvarli. Paolo VI in persona ne aveva
chiesto la liberazione. Un sottosegretario agli Esteri, inviato
laggiù in «missione speciale», otteneva e annunciava loro la
libertà. Ma undici compagni di lavoro di quegli uomini non
potevano tornare a casa. Erano stati subito massacrati, al
mattino del 9 maggio 1969, durante il fatto d'armi.
Perché riparlarne ancora?
Forse per dire che ancora oggi è viva la riconoscenza
verso quanti operarono con generosità per salvare i prigionieri
del Biafra. Forse per rivivere la gioia di una solidarietà
fraterna che in quella «vicenda» ci aveva reso tutti più uomini,
impegnati ad un solo fine, senza distinzione di razza, di
responsabilità, di religione, di continente. Forse anche perché
quella «vicenda» qualcosa può insegnare ancora a questa
nostra umanità di fine millennio, una umanità forte del suo
progresso, libera e decolonizzata nelle sue nazioni, ma non
ancora sicura del suo futuro e della sua dignità.
Il mondo è certo cambiato dai giorni del Biafra. Ma gli
uomini di oggi, i popoli, sono veramente più civili, più liberi,
più maturi di quel tempo? Quanti nuovi «Biafra» nella storia e
nel mondo ieri, oggi, domani? E quanto più «pesanti» del
primo Biafra? Allora, nel '69, la guerra civile nigeriana, quasi crisi
internazionale di stile antico là nel golfo di Guinea, poteva
anche sembrare malattia di «crescita» di un continente nuovo.
Oggi no: la ribellione, il confronto di potenza, l'esplosione dell'
egoismo - nonostante la nuova stagione di distensione -
fermentano ancora in vari paesi, nonché nei campi di
prigionia fisica e morale in cui ancora si perseguita l'uomo
libero. E allora perché ritornare al piccolo episodio degli italiani
in Biafra? Forse perché in quella vicenda, così come fu
vissuta e sofferta, «violenza e odio» non cancellarono
generosità umana e comprensione; forse perché la «maledetta
guerra» non impedì testimonianze di umana nobiltà, gesti
persino cavallereschi e soprattutto non mortificò la tenacia
degli uomini di buona volontà pronti - dopo la tempesta - a
«ricostruire» ed a riprendere con fiducia la via del mondo
nuovo. Potrà essere così anche oggi, anche domani?
MARIO PEDINI
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